Le rane d’acqua di Loa

O di come il Cile abbia ingoiato la rana

Calama, Deserto di Atacama, Cile.

“Ammiro chi resiste, chi ha fatto del verbo resistere carne, sudore, sangue, e ha dimostrato senza grandi gesti che è possibile vivere, e vivere in piedi, anche nei momenti peggiori.”

Luis Sepulveda, Le rose di Atacama

Deve essere il deserto, forse il sale o l’aria secca e polverosa, deve esserci qualcosa che accomuna la vita con la vita negli ambienti più aridi del pianeta, una forma di resilienza conquistata al suono di milioni di anni di evoluzione, gocce di acqua come diamanti e vegetazione senza pretese.

Ci sono forme di quella vita che nel deserto si sono ritagliate minuscoli angoli, che hanno appoggiato le loro dita dentro piccole pozze alimentate da un filo di acqua così sottile da sembrare una lacrima che scivola sulla guancia asciutta di un bambino.

Con quelle dita devono aver preso le misure della loro esistenza, e senza produrre rumore alcuno hanno conquistato il loro posto nel mondo. Ma il deserto di Atacama è un bambino ferito. Si seguono le sue vene e le sue arterie per estrarre il rame, tracciare nuove strade e erigere nuovi palazzi.

Si spreme la terra di un’acqua che non esiste per fare crescere effimeri miraggi agricoli. Colto da una profonda sete esistenziale che spinge a consumare ogni risorsa in nome di un progresso insostenibile, il Cile nel 2019 ha dato un ultimo profondo e rumoroso tiro di cannuccia in quella lattina chiamata provincia di Loa, e ha ingoiato l’unica popolazione al mondo di rane d’acqua della specie Telmatobius dankoi. Il mondo scientifico le chiama, con la nuova lingua universale che ha soppiantato il latino,

Loa Water Frogs. Il nome è esotico, l’animale decisamente poco appariscente, ma antico e soprattutto è un micro-endemismo. Esiste in quel luogo e solo lì, un’area di pochi km quadrati, in mezzo a un deserto poco ospitale, poco fuori la città di Calama. Tutta l’acqua che le ospitava e ospitava con esse le specie delle quali si cibavano, è stata risucchiata. Per qualche ragione che non sapremo mai, un minuto gruppo di rane è sopravvissuto al risucchio.

Forse sono uscite dal grande naso del Cile, dopo che per il gran aspirare l’acqua gli è andata di traverso e si è infilata nelle narici, facendolo tossire e sobbalzare. Non lo sappiamo, ma di un intero pianeta, solo 14 rane di Loa hanno trovato rifugio in una pozzanghera di fango, una sorta di tendopoli animale, un campo profughi. Erpetologi e conservazionisti cileni le hanno cercate ed estratte dalla terra come tuberi una ad una, per tentare di salvare questo rametto del grande albero della vita già completamente spezzato ma non morto. Le hanno trasportate allo Zoo Nazionale del Cile e qui hanno iniziato a giocare come maghi con le pozioni di Madre Natura. Cosa mangia una rana di Loa, quale acqua può ospitare le sue uova e i suoi girini, a quale temperatura ama riprodursi.

La selezione naturale ha plasmato le risposte in milioni di anni di storia evolutiva, gli scienziati sono chiamati a indovinare e comprenderle nel giro di poche ore. Le rane avevano fame, una fame da morire.

La buona notizia di inizio 2021 è che la deportazione presso lo zoo di Santiago delle rane di Loa in cattività ha funzionato. Negli ultimi mesi hanno prodotto centinaia di uova e dalla loro schiusa sono nati 400 girini. I girini navigano come sommergibili dentro vasche di vetro e nulla sanno della loro vita perfettamente adattata alle riserve di acqua del deserto, dove un uomo durerebbe come un soffio. Se il Governo cileno poserà la cannuccia, le rane potranno abbandonare l’esilio, tornare nella loro minuscola terra senza temere un altro campo profughi e ricominciare a prosperare con la loro minuscola e silenziosa popolazione.

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